Le polemiche sul trasferimento nel porto di Gioia Tauro delle armi chimiche siriane non devono farci dimenticare che, fin dalla Seconda Guerra Mondiale, l’Adriatico è sempre stato utilizzato dalle forze armate americane e britanniche come discarica di ordigni letali, radioattivi e altamente inquinanti
Nelle ultime settimane tutti i giornali hanno dedicato spazio alle polemiche suscitate dalla decisione di trasferire nel porto calabrese di Gioia Tauro le armi chimiche provenienti dalla Siria che, nel quadro degli accordi internazionali, dovranno essere trattate per divenire inoffensive. Ma raramente i nostri mezzi d’informazione si ricordano di una terribile e sconcertante verità: il Mare Adriatico è un immenso cimitero di armi chimiche, radioattive e di ogni genere di ordigni letali. E questo già dalla fine del secondo conflitto mondiale, quando le forze armate occupanti, i cosiddetti “alleati”, decisero di farne la principale discarica per tutte le sostanze più pericolose e vietate dai trattati internazionali.
Le nostre autorità, sia politiche che militari, sono bene al corrente della cosa, come sanno bene del resto che questo allucinante “stoccaggio” di ordigni letali non ha conosciuto soste, protraendosi negli anni fino a tempi a noi molto vicini. Anche durante e dopo il barbaro attacco della NATO contro la Serbia del 1999, infatti, il nostro mare orientale è stato continuato ad essere utilizzato come discarica prediletta dall’esercito americano per occultare un numero impressionante di ordigni, comprese le micidiali bombe a grappolo (clustrer bombs) e quelle all’uranio impoverito.
Pochi giornalisti hanno fino ad oggi avuto il coraggio di denunciare la cosa e di evidenziare gli enormi rischi per la salute che questa discarica rappresenta per milioni di nostri concittadini che vivono e risiedono sulle coste adriatiche. Fra questi pochi si è sempre distinto Gianni Lannes, autore di numerose inchieste che hanno fatto luce su questa realtà drammatica.
Attraverso il suo blog Sulatesta!, Lannes è tornato recentemente sulla questione, denunciando come l’intero ecosistema dell’Adriatico sia ormai irrimediabilmente compromesso e rilevando come già dieci anni fa l’ICRAM (l’Istituto centrale per la ricerca scientifica e tecnologica applicata al mare) denunciava, alla luce di un accurato studio scientifico, l’inquinamento subito dall’intera catena alimentare.
Pezzi di questo ammasso informe (che si stima sia di oltre un milione di ordigni caricati con aggressivi chimici come l’Iprite e il Fosforo, soltanto se si contano quelli affondati nell’immediato dopoguerra) emergono sempre più spesso per via delle correnti marine che li depositano sulle spiagge. E capita spesso che questi ordigni rimangano impigliati nelle reti dei pescatori, che risultano i più esposti alla nocività di certe sostanze. Tanto che, come denunciato sempre da Lannes, viene applicato il Segreto di Stato sulle cartelle cliniche di tutti gli addetti del settore della pesca.
Già nel Marzo 2007 Gianni Lannes aveva pubblicato sul settimanale Left (di cui era condirettore Andrea Purgatori, il giornalista che sul Corriere della Seraaveva indagato fin dalle prime battute sulla strage di Ustica, scoprendone il “muro di gomma”) un’accurata inchiesta a riguardo, approfondendola poi sul campo in varie occasioni e pubblicando poi gli sconcertanti risultati delle sue scoperte cinque anni dopo, nel 2012, dedicandovi un intero capitolo (intitolato “Bombe amare”) del suo libro Il Grande Fratello, strategie del dominio.
Apprendiamo, dalle sue denunce, che la pratica di utilizzare i mari come discariche di ordigni letali e sostanze chimiche è sempre stata adottata dagli eserciti, soprattutto quello americano e quello britannico. Tanto che, al termine della Seconda Guerra Mondiale – tra il 1945 ed il 1947 – gli “alleati” hanno affondato un po’ ovunque a largo delle coste europee (oltre che nell’Adriatico anche nel Tirreno, nel Baltico e nell’Atlantico del Nord) enormi quantità di ordigni, tra cui oltre 60.000 tonnellate di agenti nervini. E, sempre parlando di gas nervini, risulta che le forze armate americane abbiano inabissato nell’Atlantico decine di migliaia dei propri razzi M-55, non stagni, e pieni del micidiale Sarin. Razzi che, essendo appunto non stagni, e quindi soggetti all’azione erosiva dell’acqua marina, hanno già iniziato da tempo a liberare il loro micidiale contenuto.
Ed anche il Pacifico, oggi sconvolto dagli effetti dell’inquinamento radioattivo di Fukushima, risulta essere costellato da discariche contenenti migliaia di tonnellate di armi chimiche affondate, oltre che dagli Americani, anche dalle forze armate britanniche e australiane.
Il Bulletin of the Atomic Scientists, citando uno studio condotto nel 1993 dalla US Arms Control and Disarmament Agency (ACDA, Agenzia USA per il controllo delle armi e il disarmo), riporta testualmente che “in tutto, gli Stati Uniti sono responsabili di aver effettuato 60 scarichi in mare, per un totale di 100.000 tonnellate di armi chimiche piene di materiali tossici. I siti statunitensi si trovano nel Golfo del Messico, al largo del New Jersey, della California, della Florida, di New York e del South Carolina e nei pressi di India, Italia, Norvegia, Danimarca, Giappone e Australia”.
Ma l’Adriatico rappresenta, soprattutto per noi Italiani, alla luce di ciò che nasconde sui suoi fondali, una vera e propria bomba ad orologeria.
Secondo quanto emerge da documentati rapporti della Questura di Bari, consultati da Gianni Lannes presso l’Archivio di Stato del capoluogo pugliese, le forze armate di Sua Maestà Britannica, al termine del secondo conflitto mondiale, hanno deliberatamente affondato a poche miglia dal litorale barese, in fondali bassi e pescosi, migliaia di ordigni contenenti armi chimiche. Sulla vicenda il Governo di Londra ha imposto una censura militare tutt’oggi in vigore, nonostante che i primi documenti sanitari sui pescatori italiani contaminati da quelle sostanze risalgano al 1946.
La cosa più sconvolgente è che l’ubicazione esatta di queste discariche, oltre ad essere talvolta scarsamente nota alle nostre autorità militari, non viene criminalmente segnalata alla popolazione, mettendo così a rischio, oltre a quelle dei pescatori, le vite di chiunque lavori sul mare e degli ignari sub e dei bagnanti, che sempre più spesso si imbattono in distese di ordigni che le mareggiate portano alla luce sui fondali.
Emblematico è il caso di Pianosa, la più remota delle isole dell’arcipelago delle Diomedee, ultimo lembo nell’Adriatico di suolo italiano prima del confine con le acque internazionali, di fronte al Gargano. Come denuncia sempre Gianni Lannes, quella che è classificata come un’incontaminata riserva naturale marina con fondali cristallini e varietà di flora e fauna marine uniche in tutto il Mediterraneo, è in realtà un cimitero di ordigni letali.
Eppure un decreto interministeriale del 14 Luglio 1989 stabilisce che sull’isola e attorno ad essa è vietata «l’alterazione con qualsiasi mezzo dell’ambiente geofisico o delle caratteristiche biochimiche dell’acqua, nonché l’introduzione di armi, esplosivi e di qualsiasi mezzo distruttivo o di cattura, nonché sostanze tossiche o inquinanti» e né il Portolano della navigazione né le carte nautiche, neanche le più aggiornate, fanno menzione alcuna del tappeto di bombe che si estende su quei fondali. Nessuna comunicazione a riguardo viene ufficialmente data alla popolazione ed ai turisti, nonostante che le nostre autorità militari siano ben consapevoli di ciò che le acque di Pianosa nascondono.
Presso la Capitaneria di Porto di Manfredonia, infatti, nonostante la mancata collaborazione istituzionale, lo stesso Lannes ha avuto modo di verificare una precisa ordinanza classificata come “numero 27″, risalente al 18 Ottobre 1972. Il documento, firmato dal Tenente Colonnello Mariano Salemme, rende noto che «Nella zona di mare circostante l’isola di Pianosa, per una profondità di metri 100, sono depositate su fondo marino un numero imprecisato di bombe aeree che rendono quella zona pericolosa alla navigazione, ancoraggio e sosta di qualsiasi natante, e per la pesca, la pesca subacquea e la balneazione». Pertanto, prosegue il documento, «Dalla data odierna fino a nuovo ordine, nella zona di mare sopra indicata, per una profondità di mare di metri 500 (cinquecento), sono vietata la navigazione, l’ancoraggio e la sosta di qualsiasi natante, la pesca, la pesca subacquea e la balneazione».
Ai numerosi ordigni rilevati dalla Marina Militare nel 1972, sui fondali di Pianosa si sono poi aggiunti quelli risalenti al recente conflitto nei Balcani. E numerosi involucri esplosivi, inclusi quelli risalenti all’attacco NATO alla Serbia del 1999, perdono il loro micidiale contenuto, alterando l’habitat marino con gravi conseguenze ambientali e sanitarie. Lo confermano i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che ha censito fino ad oggi soltanto una minima parte delle bombe americane presenti nell’area. «Le indagini hanno evidenziato un notevole stress per gli animali marini campionati – rivela Luigi Alcaro, ricercatore dell’ISPRA – segni di sofferenza e alterazioni a livello biochimico e istologico che possono essere diretta conseguenza del TNT disperso dalle bombe».
Il TNT, secondo la letteratura scientifica, è un composto solido, giallo e inodore prodotto dalla combinazione di acido nitrico e adido solforico. Numerose ricerche hanno dimostrato la tossicità di questa sostanza sull’organismo umano che si manifesta a diversi livelli provocando epatite e anemia emolitica, danni all’apparato respiratorio, eritemi e dermatiti. Inoltre essa è stata qualificata a livello internazionale anche come potenziale agente cancerogeno.
Lo studio dell’ICRAM datato Maggio 2003 parla chiaro, come ha rilevato Gianni Lannes nelle sue inchieste. Non a caso il rapporto è intitolato “Contaminanti rilasciati dalla corrosione di residuati bellici sui fondali dell’isola Pianosa”.
Un’interrograzione parlamentare rivolta il 13 Luglio 2004 dal deputato dei Verdi Mauro Bulgarelli ai Ministri dell’Ambiente e della Difesa, affermava testualmente: «Nelle acque di Pianosa operano abitualmente pescatori di frodo e in prossimità dell’isola transitano petroliere e spesso gettano l’ancora natanti fuoribordo, circostanze che rendono possibile l’esplosione degli ordigni una volta che essi venissero a contatto con gli scafi». Bulgarelli aveva chiesto inoltre: «quali iniziative si intendano adottare per rimuovere nel più breve tempo possibile gli ordigni giacenti sui fondali, fonti di gravissimo pericolo per l’ecosistema, per la navigazione e la salute delle popolazioni dell’arcipelago delle Tremiti?».
L’unica risposta “istituzionale” agli allarmi lanciati dagli scienziati, ai rapporti dell’ICRAM e alle interpellanze dei Verdi risale al 14 Ottobre 2005. L’allora Ministro della Difesa Antonio Martino si limitò ad ammettere, nel caso di Pianosa «il rinvenimento di un numero imprecisato di ordigni bellici risalenti alla Seconda Guerra Mondiale» (tacendo quindi su tutti gli ordigni inabissati intenzionalmente dal dopoguerra fino ad oggi), ma si guardò bene dall’adoperarsi per predisporre una qualsiasi bonifica dei fondali.
Ma, sia nel caso delle Tremiti che per tutti gli altri numerosi siti contaminati dell’Adriatico e del Tirreno, nonostante la gravità inaudita della situazione, l’opinione pubblica è ancora tenuta colpevolmente all’oscuro dalle autorità e i vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni non sono mai seriamente intervenuti, né mai si è parlato di dare inizio a delle bonifiche.
Si preferisce, da parte dei politici, nascondere la testa sotto la sabbia e fingere che il problema non esista, come è stato fatto per ben diciassette anni nel caso della “Terra dei Fuochi”, su cui si arrivò addirittura a imporre il Segreto di Stato, mentre la gente continua ad ammalarsi e a morire.
«Oggi siamo tutti danneggiati. Il problema non si deve ignorare ma risolvere. Tutto purtroppo è ancora nell’ombra», ammonisce Antonio Savasta, sostitutore procuratore a Trani.
Infrangere il muro di gomma, secondo Gianni Lannes, è un bene per tutti: i responsabili – soprattutto il governo USA – dovrebbero assumersi le proprie responsabilità e caricarsi gli oneri delle bonifiche, ammesso che vi siano le condizioni per poterle ancora fare, ammesso che per i nostri mari non sia ormai già troppo tardi.
Ma quali assunzioni di responsabilità ci si potrebbe mai aspettare, aggiungo io, da un esercito, quello degli Stati Uniti d’America, che dal 1945 continua ad occupare militarmente il nostro territorio e che ha sempre considerato i nostri mari alla stegua di un immenso immondezzaio?
E quali assunzioni di responsabilità ci potremmo aspettare da una classe politica che non solo ha permesso tutto questo, ma che ha anche contribuito a nasconderlo per decenni all’opinione pubblica e ai cittadini?
Nicola Bizzi